Il ruolo del Virtual Reality content creator

Il ruolo del Virtual Reality content creator

Il 22 Maggio 1813 nasce in Germania un compositore di nome Richard Wagner. Tra le sue tante intuizioni, ci siamo ricordati di quella forse più complicata, non solo da pensare ma soprattutto da pronunciare: la “Gesamtkunstwerk”, in italiano “l’opera d’arte totale”. Non è niente di meno che la sua visione ideale di teatro, in cui musica, drammaturgia, coreutica, poesia, e arti figurative si sarebbero connesse e contaminate per creare un unico spettacolo. Con la stessa convinzione e con la dovuta ricerca, il musicista ha dettato le regole per la costruzione di un teatro perfetto, il Festspielhaus, nel quale l’atmosfera buia, l’orchestra nascosta e l’assenza di palchi laterali, fanno concentrare la visione dello spettatore solamente sullo spettacolo frontale, permettendogli un’immersione totale in ciò che sta vivendo, mirando dritto alla sua emotività. Un po’ come chi, all’interno dei tanti dibattiti legati alla realtà virtuale, sostiene la maggior efficacia della visione a 180 gradi su quella a 360. Ma torniamo al passato – solo per poco, promesso.

William Kentridge, Wozzeck, (2017).

Alla fine del secolo, precisamente nel 1898, nasce un certo Bertholt Brecht, drammaturgo teatrale a dir poco anticonformista. Contrariamente alla visione di Richard, Bertholt interpreta il teatro come un mezzo per incitare lo spettatore al ragionamento, in maniera totalmente povera: non punta tanto a volerlo coinvolgere sentimentalmente, quanto al volerlo straniare per rendere l’interpretazione di ciò che sta vivendo ancora più consapevole. Lo rende un vero e proprio giudice dello spettacolo, attraverso il distacco emotivo, arrivando a rompere la così detta quarta parete che si interpone tra la storia messa in scena sul palcoscenico e quella dei singoli spettatori.

Arrivando a noi: è curioso come nella realizzazione di un videoVR, si può decidere di includere entrambe le prospettive sopra citate, e perché no, anche all’interno dello stesso contenuto. In base a ciò che si vuole comunicare, possiamo infatti realizzare un video dove vengono armonizzati tutti gli elementi possibili nella narrazione: dai suoni, ai dialoghi tra i personaggi, alle riprese video reali contaminate da animazioni in 3D, e condite con transizioni ad hoc. Una vera e propria “opera d’arte totale”, dei giorni nostri, sempre se lo scopo è quello di colpire emotivamente lo spettatore, con una trama decisa gran parte dall’alto. Se invece la priorità del nostro contenuto, o di una sua porzione, è quella di rendere lo spettatore nelle vesti di un consapevole osservatore, abbiamo una lezione dal passato non da poco: distacco, oggettività, e nel nostro caso, possibilità di muoversi liberamente nei 360 gradi di spazio.

In entrambi i casi siamo tutti d’accordo che attraverso la Virtual Reality si riesce a creare un contenuto altamente esperienziale, che si avvicina all’eliminazione della quarta parete in modo molto più esplicito e “facile” di quanto lo si possa fare con il video realizzato in 2 dimensioni, ma questo non dipende solo dal tipo di tecnologia: la parte difficile del gioco, in realtà – non virtuale – , è tutto il resto.

Posterheroes

Scegliere di partecipare

Se in passato il ruolo di storyteller all’interno dei vari canali mediatici era visto come l’unico “decision maker” di un racconto, ad oggi bisogna accettare il fatto che il fruitore della storia, per mantenere un alto livello d’attenzione, ha bisogno di un ruolo attivo all’interno della storia stessa.  Il narratore non è più un eroe che osserva dall’alto lo stupore del cliente di fronte alla sua creazione, semplicemente perché al giorno d’oggi, questo vecchio approccio spesso “non attacca”. I così detti content creator (quelli bravi) sono consapevoli che il pubblico contemporaneo ha sempre più voglia di sentirsi protagonista, di poter dire e di poter fare la sua. In parole povere, sono in cerca di un’esperienza.

A questo proposito, dato per scontato che ci piacciono i mondi sempre più connessi, una connessione letteraria vale la pena citarla: in “Vita di Galileo”, Brecht sottolinea il fatto che, contrariamente al pensiero superficiale, non è fortunata la terra che viene salvata da un eroe, lo è di più quella che di eroi non ne ha bisogno.

Non lontana da questa affermazione, si dovrebbe porre la curiosità e la ricerca critica di chi opera come storyteller e content creator nel campo della realtà virtuale: “il mio futuro fruitore avrà davvero bisogno di un eroe, o posso liberarmi di una certa responsabilità creativa, lasciandogli una porzione di spazio per creare lui stesso il suo contenuto?”

Chi sceglie di indossare un visore ed immergersi in un contenuto di realtà virtuale, sceglie di fare due passi mica da poco: essere altrove, da solo. Nessuno che ti organizza i classici incontri Erasmus, o che ti regala un vademecum sull’ordine delle cose da visitare, e per quanto rimanerci.  Il vero eroe forse è qualcun altro, o forse, trattandosi di una scelta libera e consapevole, non ha nemmeno senso parlarne.

Probabilmente si deve convivere con il fatto che sta nascendo il bisogno di un vero e proprio “architetto della narrazione”, che conosca tutti i suoi strumenti e che sappia assecondare ciò che il cliente ricerca, al di là della pura narrazione: possibilità di interagire con il prodotto/servizio, ma soprattutto possibilità di scegliere da cosa farsi sorprendere e da cosa farsi distrarre.

Qualche mese fa ci è capitato di spulciare sulla pagina Facebook di una piccola compagnia teatrale di Verona, Fucina Culturale Macchiavelli, la quale aveva pubblicato un evento che, da curiosi patologici verso qualsiasi forma di contaminazione, ha attirato la nostra attenzione: il “real life theatre”.

“Real Life Theatre”

La domanda ci è sorta spontanea. Come si può trattare di un’esperienza di vita reale se a metterla in scena è il teatro, arte della finzione per antonomasia? In realtà, la cosa è stata, non solo innovativa, ma anche possibilissima.

Per rendere il gioco di squadra più fattibile, il pubblico era limitato ad un massimo di otto persone, che potevano garantirsi il posto, previa prenotazione. Il ruolo attivo del gruppo consisteva nel fare da passaparola tra i vari personaggi coinvolti nella storia, ma il fattore ancora più innovativo e perfettamente in stile “real life” era la nuova gestione dello spazio: le vicende non si svolgevano infatti su un palcoscenico, ma erano dislocate in varie stradine, stanze, e luoghi della città, che lo spettatore doveva raggiungere tramite indizi, per poter andare avanti con la storia in cui era letteralmente immerso.

La sfida è quindi quella di rispondere prontamente alle richieste di uno spettatore in continua ricerca di contaminazioni innovative e sorprendenti, per ottenere quello che vuole: un’esperienza fittizia, che si mostri come verità, il più reale e coinvolgente possibile. Il nuovo tipo di fruitore è da un lato pronto a lasciarsi distrarre, ma dall’altro sempre più presente, là dove anche il lasciarsi distrarre, diventa niente di meno che una sua scelta.

Black Mirror — Bundersnatch

Scegliere di distrarsi

“Ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere.”
 (Jean-Paul Sartre) 

Nella scelta dell’interpretazione della storia, di come volerla vivere e di quando e quanto lasciarsi distrarre dall’ambiente circostante (circostante nel vero senso del termine, si parla sempre di 360.) un ruolo fondamentale lo gioca la scelta del punto di vista. Come in tutti gli altri tipi di narrazione, anche nel VR è sicuramente un elemento caratterizzante, forse il più importante di tutti. Ci sono due differenze di base che uno storyteller può decidere di applicare nella realtà virtuale, ovvero il permettere di essere qualcuno, oppure no. La così detta soggettiva, aiuta il fruitore del contenuto a riconoscersi in uno spettatore reale e a tutti gli effetti umano, dotato di un corpo. In questo caso, è molto probabile che chi sta indossando il visore segua i movimenti del “suo” corpo all’interno del video (pur rimanendo libero di immedesimarsi in un giovane ribelle e vivere l’intera storia voltato all’indietro facendo l’opposto di quanto il corpo gli sta suggerendo di fare, consapevole che la sua direzione non cambia: ricordatevi sempre che in ogni caso, un po’ come nella leggenda della rana e dello scorpione, il finale della storia sarà già stato scritto).

Dall’altra parte può esistere però anche la scelta del farvi sentire liberi da un corpo, per spiare cosa sta accadendo tutto intorno in maniera totalmente distaccata. Come sottolineato dalle autrici del canale VR/AR media experiments, Kate Newton e Karin Soukup, “Avere un corpo significa essere qualcuno”, ma a volte non c’è cosa migliore che essere un osservatore neutrale. Secondo alcuni esperimenti da loro condotti, essere nessuno può risultare un grande vantaggio a livello di osservazione, in quanto si è più portati a immedesimarsi in un detective invisibile e a notare alcuni dettagli della storia, che altrimenti passerebbero in secondo piano. Nel link qui sotto potrete trovare una guida in inglese molto esaustiva, in merito alle diverse tecniche di storytelling e uso della prospettiva nella Realtà Virtuale:

https://medium.com/stanford-d-school/the-storyteller-s-guide-to-the-virtual-reality-audience-19e92da57497

In ogni caso, ciò che questa tecnologia non ci permette proprio di fare, è il non scegliere, con un po’ di sana fatica. Non so voi, ma a noi non sembra poi una grande novità. La Realtà Virtuale, lo dice la parola stessa, ha tra i suoi intenti quello di avvicinarsi il più possibile al mondo reale, e da che mondo è mondo (appunto), l’essere umano è portato a compiere una scelta in ogni singolo istante della sua vita, anche quando gli sembra di non farlo, decidendo di distrarsi e di voltarsi dall’altra parte, non ascoltando e non guardando nella direzione in cui gli viene suggerito di farlo.

Dal tipo di cereali che vorrebbe a colazione (sì, abbiamo guardato l’ultima puntata interattiva di Black Mirror) al scegliere un partner per la vita, le decisioni sono sempre pronte ad interrogarci.

Lo stesso processo avviene all’interno di un video di realtà virtuale: scegliere dove guardare, quando e per quanto tempo, sono tutti elementi che partecipano ad una scelta fondamentale, svolta in gran parte dal fruitore del contenuto: la scelta di che storia portarsi a casa. Questo avviene sia nell’uso di una prospettiva in soggettiva, sia nell’uso di un cavalletto, e quindi nella mancanza di un personaggio da interpretare, con livelli diversi. In questo senso, l’art director nella realtà virtuale svolge un ruolo definibile allo stesso tempo primario e di contorno: vi anticipa che preparerete una torta, lasciandovi sul tavolo gli ingredienti, ma come usarli è una scelta vostra. Potete benissimo decidere di non usarne nemmeno uno, distrarvi, e osservare il tavolo in legno per tutta la durata della preparazione. In questo modo non ci sarà mai nessuno che starà vivendo la stessa storia nello stesso momento, e l’esperienza in VR acquisterà sfumature differenti ogni volta che verrà rivista, pur non cambiandone il montaggio.

BluDesign Studio

“The wow — effect is overrated”

Qualsiasi cosa si senta nominare al giorno d’oggi per almeno un mese di fila, e da almeno cinque non esperti del settore in questione, ci fa dubitare della sua reale efficacia; come dicono i giovani amanti degli inglesismi, e lo diciamo anche noi: “è overrated” (in italiano, “sopravvalutato”). Non so se è capitato anche a voi di sentirlo almeno una volta, ma qualsiasi azienda o agenzia che si occupi di comunicazione è alla ricerca del così detto “effetto — wow” per sorprendere i propri clienti, un po’ perché va di moda dirlo e un po’ perché effettivamente serve per attirare il nuovo pubblico. Il che è un fattore sicuramente positivo, se si guarda dall’angolazione giusta. Al contrario di ciò che si possa comunemente pensare, l’effetto sorpresa non deriva solo dal nuovo device o dall’ultima tecnologia prodotta sul mercato, in realtà questo gioca solo una piccola parte di tutto quello che ci gira intorno.

(L’altro giorno a Trento c’era il mercatino delle pulci: gli adolescenti erano in fila per contendersi la Polaroid, mentre i genitori erano rapiti dalla macchina a rullino.)

Ciò che oggi tutti chiamano storytelling o addirittura storyliving, nel caso di un’esperienza immersiva, rappresenta uno dei tasselli più importanti che andrà poi a comporre il concept del prodotto o servizio, e ne saprà delineare un’identità. E proprio questo storytelling non è altro che una riorganizzazione in chiave contemporanea degli spunti narrativi ricevuti dai nostri antenati, adattati ai bisogni e alle richieste del nuovo tipo di consumatore. Molti sostengono sulla realtà virtuale che si tratti di una tecnologia nuova, la quale l’uomo, e di conseguenza il mercato, non è ancora pronto ad accogliere: ma è davvero così lontana dalle dinamiche narrative con cui siamo sempre stati abituati a confrontarci? Se avete prestato attenzione ai paragrafi precedenti, siete d’accordo con noi sulla risposta. In questo modo, non è difficile prevedere che non appena usciranno sul mercato gli strumenti e i supporti tecnologici adatti, sarà possibile immergere il fruitore in ogni tipo di interazione il più simile possibile alla vita reale, coinvolgendolo in maniera attiva in ogni parte del racconto a cui verrà sottoposto.

Ci abbiamo riflettuto un po’ : il bisogno di una narrazione sempre più esperienziale e il rapporto che tiene con il progresso tecnologico porta ad una possibile e quasi ovvia conclusione che le parole dell’artista contemporaneo David Rokeby hanno saputo riassumere meglio di noi: “nella prossima generazione, il fattore interattività non sarà una problematica o una novità eccitante, sarà invece vista come un qualcosa di ovvio e necessario”.

Noi non vediamo l’ora. Voi?

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Pubblicato il 18 marzo 2019